Una
volta, tanto tempo fa, in una parte del mondo dove il tempo si era
fermato, sorgeva un regno chiamato Sevebien.
In
quel regno un po’ incantato, ma anche molto, tanto scombinato,
tutto si faceva tranne che guardare quello che accadeva intorno a
ogni abitante di ogni casa, di ogni palazzo, di ogni torre, di ogni
grotta e perfino del mare.
Ma
a Sevebien il mare non c’era.
I
pesci e i mammiferi senza zampe, ma con le branchie, vivevano
all’aria, al sole e alla luce come fossero animali terrestri. E poi
parlavano lo stesso linguaggio dei cani, dei gatti, dei topi e dei
conigli che popolavano uno dei regni più strani che madre natura e
qualche uomo perso, avevano costruito a dispetto delle leggi e dei
codici, delle regole e delle norme dinastiche che reggevano ogni
altro gruppo di persone sparso nell’universo. Sevebien era un regno
senza re. Mancava anche la regina e i principi scarseggiavano.
C’erano
Mammo e Gippo, Vesso e Gappo ma per il resto, tutti gli altri
abitanti quando si incontravano si salutavano con un “Oh” che era
uguale per uomini e donne, pesci e animali, piante e fiori, sassi e
rocce.
La
città di Mira Mas Allá,
capitale del regno, era un posto bellissimo. Le case erano colorate e
le strade ben curate e anche gli alberi e le siepi sembravano
venissero potati a ogni ora del giorno e della notte, all’alba e al
tramonto, con il sole e con la pioggia, con il caldo e con il freddo.
A
Sevebien
non si
era mai celebrato nessun rito. Forse perché non nasceva mai nessuno,
ma nessuno in compenso moriva, gli abitanti del regno non sapevano
cosa fossero il battesimo, la prima comunione, la cresima, il
matrimonio, l’estrema unzione e, quindi, neanche un funerale. Non
sapevano cosa fossero le lacrime e il sorriso, la gioia e la
tristezza e ignoravano totalmente cosa fosse l’amore. Loro, gli
abitanti di Sevebien, vivevano una vita senza emozioni, mentre
sapevano molto bene cosa fosse l’invidia. Questo aspetto procurava
non pochi danni a una popolazione che altrimenti avrebbe vissuto
senza sussulti, beandosi delle nuvole incantate che svolazzavano
felici nel cielo di giorno e di notte e dalle quali non scendeva mai
una goccia di pioggia. La
pioggia c’era ma non scendeva dalle nuvole. Cadeva e basta, anche
con il sole, con il buio, la brezza violenta che arrivava da oriente
e il venticello caldo e odoroso dell’ovest. Sevebien era un regno
gonfio di profumi. Si avvertivano nell’aria come se un essere
vivente e un po’ pazzo si divertisse a spargere petali di rose,
foglie di basilico e rosmarino, eucalipto e origano, gelsomini e
campanule in un misto di odori stordenti e refoli di deliziosa
vaniglia.
Vicino
alla città di Mira Mas Allá,
qualche chilometro più a nord, sorgeva un piccolo borgo di case
diroccate che, abitato da un solo essere umano, si diceva fosse il
regno dell’invidia nascosta. Gli abitanti di Mira Mas Allá
lo avevano chiamato Sevemal perché non era segnato su nessuna carta
geografica e perché, affacciandosi da una qualsiasi delle case che
lo componevano, il paesaggio non è che fosse dei migliori...
A
Sevemal, però, molto spesso, si recavano gli abitanti di Mira Mas
Allá
che non riuscivano a sopportare che qualcuno dei loro concittadini
fosse appena più sorridente di loro. Non sapendo cosa fosse la
felicità, i sevebieniesi maldisposti approfittavano di ogni
circostanza per recarsi da Zizzo, l’unico abitante di Sevemal noto
per la sua cattiveria (ma anche per una indiscussa genialità), per
raccontargli i misfatti di chi, incontrandoli per strada, aveva avuto
l’ardire di salutarli con un sorriso.
“Ma
ti rendi conto, maestro Zizzo, Mammo mi ha incontrato e salutato e
sorriso. Inconcepibile! Ed era anche meglio vestito di me.”
Maestro
Zizzo allora si passava una mano sulla fronte, guardava le nuvole
nere sopra di lui e diceva: “Bisogna punirlo”.
Fu
così che un giorno, approfittando di un colpo di genio improvviso,
maestro Zizzo inventò il bombardiere. Un grande uccello di metallo
che, gonfio di pietre e di ogni oggetto pesante che lanciato
dall’alto potesse far male agli abitanti di Guardaben volasse sopra
le case del regno senza Re per distruggerle insieme ai suoi abitanti.
Quando
il bombardiere arrivò, rombando come un tuono e confondendosi con il
colore delle nuvole gli abitanti di Mira Mas Allá
pensarono allo scoppio improvviso di un temporale non capirono che
quel temporale non avrebbe portato con sé la pioggia o la neve, ma
un evento che non sapevano esistesse: la distruzione.
Il
panico si sparse come sementi di grano gettate nei solchi. Quei
rumori assordanti e le case che saltavano in aria come fossero tappi
di spumante, erano per i miramasallesi situazioni al limite
dell'impensabile.
In
un tempo possibile solo nelle favole, maestro Zizzo costruì altri
bombardieri per il solo gusto di farlo ma soprattutto perché si rese
conto che con più bombardieri, l'opera di distruzione sarebbe andata
avanti più velocemente e alla
fine, con un colpo di genio più grande di un normale colpo di genio,
costruì anche un missile. A quel punto il lavoro era finito e
maestro Zizzo trionfante, fece ritorno a Sevemal.
A
Sevebien regnava il caos totale. Gli abitanti, terrorizzati, erano
andati alla ricerca di un posto sicuro che li potesse proteggere
dall'ira senza senso di maestro Zizzo. Gli
animali che non erano animali e i pesci che respiravano soffi d'aria
pura, vagavano senza meta fra il fumo e le macerie della città
distrutta
mentre
i sopravvissuti, quelli che avevano fatto dell'invidia la loro unica
ragione di vita, chiusi nelle gabbie della disperazione si
domandavano: “Perché”?
D'improvviso
si fece un gran silenzio e l'aria iniziò a essere irrespirabile, nei
polmoni entrava polvere e negli occhi ancora il bagliore dei lampi
delle bombe.
E
venne la notte e con la notte il peso della morte e dei corpi morti
che coprivano altri corpi morti.
Così,
le anime di coloro che avevano chiesto a maestro Zizzo giustizia per
l'impudenza di un sorriso ricevuto, uscirono dai corpi e iniziarono a
librarsi nel vento. Avevano assunto forme strane che non avevano
nulla di umano e men che meno di divino. Procedevano in fila indiana
come se seguissero un percorso segnato dagli eventi che essi stessi
avevano prima invocato e poi provocato. Le loro forme si contrassero
fino a rimpicciolirsi e si dissero:
“Ma
noi non volevamo questo...”
“Forse
no, però avremmo dovuto spiegare a Maestro Zizzo che ci saremmo
accontentati di una piccola punizione”. Dissero le anime fluttuanti
dei sevebeniesi.
Piccole
o grandi, le punizioni sono sempre punizioni. Se messe poi in atto in
un regno dove non nevica ma nevica, piove ma non piove e tutti gli
abitanti vivono senza emozioni, sono solo glaciali aberrazioni.
E
venne un'altra notte e con l'altra notte il buio delle anime e dei
pensieri, delle nuvole perse e dei rimpianti senza pianti. “Ma tu
perché hai l'anima più bella della mia?” disse Vesso a Gappo. I
sevebeniesi non vissero felici e contenti. Semplicemente non vissero
più.
FINE
Opere di Vittorio Amadio
Testo di Massimo Consorti
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